Tutto è bene quel che finisce bene... ma quando non finisce bene?
Ho passato i primi otto anni della carriera scolastica, con l'etichetta "svogliata ma intelligente ... nata stanca ..." complimenti del genere e, aggiungiamo anche bugiarda e lagnona perché mi lamentavo. Mi bruciavano gli occhi, avevo mal di testa, mi faceva male la mano destra, un dolore così penetrante che piangevo, come tanti punteruoli che mi trafiggevano il palmo, a volte si bloccava. Non mi credeva nessuno, inutile anche piangere. In classe ero attenta alla lezione e mi salvavo così ma a casa il solito disastro. Lenta, i quaderni un campo di battaglia. I miei ricorsero a ripetizioni private e finiva sempre allo stesso modo: facevano i compiti al posto mio.
Nulla, io ero una bambina che "non voleva fare i compiti". Socialmente non vivevo male. Alle mie compagne non importava se fossi brava o somara. La mia famiglia, invece, era fonte inesauribile di frustrazioni.
Inutile dire che "la malata immaginaria" (altro simpatico appellativo affibbiato da mia madre) si sottoponeva ogni anno alle visite oculistiche, esami del sangue e ricordo due elettroencefalogramma, visite neurologiche, dal fior fiore di medici. I miei erano ancora più arrabbiati perché, sana come un pesce e con una buona intelligenza, ero svogliata.
La prof di italiano delle scuole medie, nella sua ignoranza, mi rovinò la vita. "Vostra figlia non può frequentare alcun liceo. E' consigliabile un percorso di studio più semplice". Mi opposi vanamente, avrei voluto frequentare lo scientifico perché ero particolarmente portata per la matematica e le materie scientifiche "un genio" mi definì il prof.
Decidero per me: ragioneria. Accettai con una tale riluttanza e ormai odiavo così tanto la scuola che mi impegnai il più possibile.
"Dieci mesi di scuola per 5 anni sono anche troppi. Non ne voglio frequentare neanche uno in più." Ormai avevo trovato le mie strategie di studio. Svolgevo i compiti scritti con la radio accesa: mi aiutava a concentrarmi ed ero più veloce. Il silenzio mi distraeva. Leggevo a pezzi qua e là facendo attenzione ai verbi e alle negazioni (strategia di Kennedy, lessi un articolo per caso). Dettati e appunti tra abbreviazioni e simboli di stenografia. La "bella copia" non era completamente in corsivo, usavo molto stampatello. Sottolineavo sui libri e segnavo su un lato i punti del discorso. Ripetevo a voce alta perché ascoltando la mia voce e memorizzavo. Ero la prima della classe.
Università. Libri da oltre duemila pagine stampati con carattere piccolissimo, mi stancavo più facilmente, con impegno e concentrazione per otto ore al giorno. Però dopo un paio d'ore mi girava la testa e bruciavano gli occhi, tanto che un giorno svenni.
Avevo scelto la facoltà sbagliata perché tutto si studia a memoria e io non trovavo alcuna logica, troppe contraddizioni. Mollai. Ho sbagliato tutta la mia vita, ho lasciato andar via i miei sogni tanto che, ho smesso di sognare e mi accontento di ciò che ho.
Adesso, a quaranta anni scrivo, ho due blog con un discreto successo. Tantissimi mi hanno proposto di pubblicare i miei racconti che sono la mia passione. Adesso mamma di un bellissimo bambino di 9 anni, dislessico e disgrafico. Non gli permetterò di dubitare o disinvestire nelle sue capacità.